sabato 28 agosto 2010

Non fate pettegolezzi


Sessanta anni fa, il 27 agosto 1950, Cesare Pavese moriva in una stanza dell'Hotel Roma, in Piazza Carlo Felice a Torino, di fronte alla stazione. La stanza c'è ancora, è stata conservata dai prorpietari dell'albergo.

La stampa il 22 agosto scorso ha pubblicato un bell'articolo di Guido Ceronetti sull'addio del poeta, che non trovo sull'edizione on line, ma re
cupero dal blog Villa Telesio.


Verrà la morte e avrà gli occhi di Connie
di Guido Ceronetti

Se il narratore non si trova in una condizione delle più allegre, chissà con quanto sollievo parlerà degli ultimi giorni che avrà trascorso un disperato suicida!
Mi accingo dunque a immaginare come sarà stata la vita di Cesare Pavese, a Torino, tra il ferragosto e la sua ultima notte, il 27 del mese.

Avevo 23 anni, ricordo nitidamente l’uscita di casa per comprare La Stampa a un’edicola che c’era allora a metà della via della Consolata, dove passava il tram n. 2 percorrendo un lunghissimo viaggio, dalla Madonna di Campagna all’ospedale delle Molinette. In verità, di Pavese fino ad allora non avevo mai letto nulla. Leggevo le recensioni dei suoi libri che faceva, puntuali, Arrigo Cajumi, che ne amò la scrittura; ad attirarmi fu la pubblicazione, notevolmente censurata, del Diario, mi pare nel 1952..

Nelle sue poesie, in apparenza datate, ma con qualcosa d’irripetibile e unico, la campagna e la città di allora, tra cui esisteva una forte cesura, per chi vorrà ripassare di là in sogno e farsi paesaggio, riaffluiranno musicalmente, piumaggio di uccelli estinti. C’è un parallelismo tra i versi, che Mila dice da narrazione celtica, di Lavorare stanca, e i disegni (tutti soltanto di proprietà famigliare) che andava facendo nei Trenta l’architetto Giorgio Tedeschi, una collezione, anche questa, irripetibile, incantevoli documenti d’arte di ciò che erano campagne dei dintorni e periferie torinesi.

Da critico emuctae naris si possono liquidare quei versi come troppo facili e rasoterra, ma contengono una qualità angelica, l’emozione, lo struggimento; basta saper leggere e saper soffrire, essere grati del plus di vita e di verità che la parola scritta, prostituta sacra dei templi invisibili, trattiene.

Occorrerebbe, per una rievocazione novellistica degli ultimi giorni di Pavese, conoscere i luoghi dei suoi domicilii torinesi. Dove abitava Cesare, prima di trasferirsi, solitario, nella camera dell’hotel Roma in piazza Carlo Felice? Le sue carte, i suoi libri, dov’erano? In quale trattoria, gargotta, ristorante, andava a cena o a pranzo? In quale caffè si ritrovava con gli amici, i collaboratori, gli invitati della Einaudi?

Tutto conta nel ripercorrere le vie di un suicida – non si sa fino a che punto determinato. Quante volte il suo telefono avrà squillato, in sua assenza? Datemi un punto, purché non in aria. Faccio ricerche presso l’archivio di questo giornale, perché le schede biografiche non mi danno responsi, e puntualmente, provvidamente, vengo rifornito di quanto è rintracciabile.

Pavese abitava, a Torino, e probabilmente avrà sempre abitato, presso la sorella Maria in via Lamarmora 35: il luogo non è lontano dalla Casa Editrice di via Biancamano 1, saranno una ventina di minuti a piedi. (Io cominciai a frequentarla nel 1949, senza incontrarvi Cesare, «dittatore editoriale»).

Possiamo ricostruire così, liberamente, epoca e fatti: la sorella e la sua famiglia lasciano Torino per qualche luogo di villeggiatura all’avvicinarsi del ferragosto (prima non si facevano ferie e poi, per lo più, in specie per i commerci le chiusure duravano tre giorni). Cesare non li segue – perché ha un pensiero nascosto, promette vagamente di raggiungerli, o aspetta prima di decidersi una lettera dall’America – e non avendo per nulla vocazione di «marito in città che si arrangia» e di comprarsi prosciutto e robiola in centro, arriva con una piccola valigia, a piedi, al Roma, il 12 o 13 di agosto, camera per i giorni che Maria e i suoi resteranno assenti. Il gesto era preparato; uno spiraglio per distogliersene o rinviarlo è impossibile non rimanesse aperto.

I contenuti della valigia di un suicida, quando non ne esca di casa privo, sono importanti. Ci fu un processo, in quegli anni, in cui l’Accusa trovò conferma dell’intenzione omicida del marito (non la sola, certamente) nel fatto che la vittima non pensava di suicidarsi avendo portato con sé una scorta di pannolini. Così nei giornali, ma come prova d’Accusa mi sembra cavolista. Se invece Van Gogh e Pavese fossero usciti, dal caffè Ravoux e da via Lamarmora, senza la pipa, in caso di suicidio dubbio, questa ne sarebbe una prova.

La valigetta di Pavese era delle più povere: avrebbe comprato il Nembutal, con ricetta, in una farmacia di via Sacchi, poco prima di assumerlo in dose da congedo; il resto erano un pettine di tartaruga, dono di Constance Dowling, l’ultimo blocco di fogli del Diario, una sola camicia di ricambio. L’estrema nota del Diario, uno dei grandi diari del secolo, ha la data del 18 col proposito mantenuto: non scriverò più.

Due o tre libri li aveva portati. Tra questi il Voyage di Céline, nelle Denoël e Steele, suo primo editore. L’esistenza può esserci pochissimo o per niente tollerabile, ma di leggere non ci lascia mai l’abitudine appassionata, quando ci sia – vizio ragionevole. Nonostante la sua determinazione, non era impossibile che un venticello contrario lo facesse ritrarre: le note estreme del Diario, scritte nella camera del Roma o su una panchina dei giardini Sambuy in piazza Carlo Felice, contengono echi di una esortazione segreta. Un pensiero compiacente può averlo attraversato, comune nei suicidi per amore: «Così lei saprà quanto l’ho presa sul serio, fino in fondo!».

Ma a lei, già tornata in America, visto il fiasco incontrato nel suo voler far carriera, grazie a Cesare, utilizzabile soltanto per questo, a Cinecittà, di quell’auto immolazione alle sue mediocri grazie, non poteva importarne proprio nulla. L’ululato di passione che arroventa gli ultimi scardinati versi, quale effetto avrebbe potuto farle? Il paragone tra lo sguardo della morte e quello di Connie non era fatto per lusingarla. Ormai voleva dimenticarla, la sua avventura romana con lo scrittore di successo, disperato di averne così poco, da sempre, tra le lenzuola.

I suoi amici e compagni del D’Azeglio sapevano tutti della sua maniacale fissazione sull’insuccesso sessuale, al punto da precipitarlo nello sguardo di Constance-la Morte. Qualche volta lo redarguivano, per affetto e un po’ per sazietà delle sue geremiadi… Bisogna considerare l’epoca e i suoi costumi; a partire da una ventina d’anni dopo le donne avranno in genere una maggiore conoscenza del dramma sessuale maschile e sulle diverse forme d’impotenza non emetteranno più sentenze di condanna… Del resto queste fanno parte tuttora dell’immaginario maschile. Pavese, con le sue ossessioni croniche di eiaculatio praecox, finiva con l’apparire anche alle amanti più disposte come un incapace radicale di dare amore, difetto, questo sì, immeritevole di perdono.

Glielo diceva anche l’amico Felice Balbo, incontrato qualche giorno prima a un tavolino del caffè San Carlo: «La virilità non sta in quello, mio caro: ma nella tua formidabile capacità di lavoro… L’eroe Orlando, quello della Durlindana, maneggia molto meglio la spada che il suo bìschero, lo dice il Boiardo! E tu la stilo, la portatile… Ma va’! Ucciderti per quell’attricetta del pettine, impotente – lei, sì! – a comprenderti, ad aiutarti… Dopo Hiroshima c’erano un milione almeno di sopravvissuti maschi del Pikadòn, tutti con l’uccello morto. E a moltissimi, per il lavoro e la dedizione infinita delle donne, dopo un anno, due, tre di sforzi appassionati, è tornato a volare come un condor!! Ma è Oriente… Va’ in Giappone, cèrcati una giapponese! La morte non avrà gli occhi di Constance, te l’assicuro… L’Angelo Sterminatore, dicono i cabalisti, è tutto fatto di occhi! Uno senza palle non avrebbe mai scritto La luna e i falò…».

Era rimasto lusingato, Cesare, sorridendo in silenzio. E certamente, in quelle lunghe sere di ruminazioni del proprio distacco, sarà andato al cinema (si diceva cine e ancora cinematografo) per distrarsi un poco dalle sue idee fisse di crocifissione insensata: suicido-sesso; sesso-suicidio… «Una barba!», commentava, a Santo Stefano Belbo, l’amicissimo Nuto.

Al cinema Corso, a due passi dall’albergo, aveva rivisto, per la terza volta, nello scempio della versione doppiata che circolava in Italia ridotta della metà, il capolavoro di Carné Les enfants du Paradis, invidiando il mimo Baptiste per l’amore di Garance – che però, alla fine, lo restituisce alla moglie, e sparisce.

Ma era ormai preda del magnetismo d’occhi dello Sterminatore, che nessuno mai ha veduto. Gli restavano poche, scardinate ore. Rilesse qualche pagina di Céline, mai troppo invitante a vivere, ripassò approvando le ultime note di diario, e buttò giù il congedo rivolto agli anonimi Tutti.

Lasciò accesa la luce accanto al letto e ingerì come per distrazione, ogni tanto fermandosi qualche minuto, la dose mortale. Se in quel momento il telefono, dalla portineria, avesse squillato… Ma l’Angelo aveva tagliato i fili. Cesare si stende sul letto, e aspetta.

(Fonte: La Stampa, 22 agosto 2010)

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