lunedì 28 giugno 2010

Torturati da trent'anni


Venerdì La Stampa ha dedicato una doppia pagina a questa testimonianza sulla strage di Ustica.
La pubblico oggi, e ringrazio Elisabetta Lachina di avere la forza di parlare.
E i PM che ancora ci lavorano.
E i giornalisti che ne scrivono.
E tutti quelli che si ostinano a non dimenticare.



MICHELE BRAMBILLA
LA STAMPA venerdì 25 giugno 2010

Si è presentata con una mail che comincia così: «Mi chiamo Elisabetta Lachina e appartengo alla strage di Ustica». Vuole raccontare la sua storia in un libro, e ci ha inviato una prima bozza. La casa in cui mi riceve è la stessa in cui abitava allora. Guardo le stanze e provo a rivivere ciò che ho letto in quelle pagine: è la sera del 27 giugno 1980.

Elisabetta Lachina ha diciotto anni ed è in casa con sua sorella Linda, che sta per compierne quattordici. Il fratello maggiore, Riccardo, è fuori con la fidanzata. L’altro fratello - Ivano, il più grande - è in vacanza con la moglie e il figlioletto. I genitori - Giuseppe Lachina, 57 anni, fotografo, e Giulia Reina, 50 anni - sono partiti da Bologna con un DC9 dell’Itavia, destinazione Palermo. Suona il telefono, è la zia Cosima dalla Sicilia: «Elisabetta, avete notizie dei vostri genitori?». Era già successo tutto. Guardo la sala da pranzo e provo ad azionare un’impossibile macchina del tempo per vedere: Elisabetta che cerca di mantenersi tranquilla, la sorella Linda, seduta a tavola al posto della mamma, immobile, con le dita incrociate.

Poi la lunga attesa, le speranze contro ogni speranza, le illusioni, la terribile certezza. Giuseppe Lachina e Giulia Reina, e con loro le altre 79 persone che viaggiavano su quel DC9 - tredici erano bambini - a Palermo non sono mai atterrati. Il mare di Ustica restituirà solo 39 corpi. Tra questi anche i corpi dei coniugi Lachina. Quello di lei, della mamma, fu classificato come «reperto C»: un frammento di 80 grammi, identificato per un pezzo di gonna rimasto attaccato. Giovedì 1 luglio Montegrotto Terme, il paese in cui i siciliani Giuseppe e Giulia Lachina erano venuti a vivere negli anni Cinquanta, dedicherà loro una via: «Sarà una via - dice la figlia Elisabetta - per la memoria. Perché nessuno dimentichi mai».

Sono passati trent’anni e anche per Ustica, come per tanti stragi italiane, nessun processo ha fatto giustizia. Secondo la testimonianza di Francesco Cossiga, il DC9 dell’Itavia fu colpito per errore dal missile sganciato da un caccia francese, il cui bersaglio doveva essere un aereo sul quale viaggiava Gheddafi. Il giudice Rosario Priore ha finito le indagini scrivendo che il DC9 fu abbattuto da un missile nel corso di «un’azione di guerra non dichiarata». Ma non si è riusciti ad arrivare fino in fondo. Lo Stato e le alleanze internazionali hanno le loro ragioni, e un politico di quei tempi, Gianni De Michelis, ha spiegato: «Non tutto può essere portato alla luce. C’è qualcosa che può restare sopra il tavolo, e qualcosa che deve restare sotto il tavolo».

«Per ventisei anni - racconta Elisabetta Lachina - non ho mai voluto partecipare alle commemorazioni, non ho voluto leggere niente, neanche gli articoli sulle indagini: il mio cervello si rifiutava di registrare. C’era un rifiuto totale. Siccome tutto quello mi apparteneva, io mi rifiutavo di accettare che mi appartenesse. Perché avrei dovuto accettare la perdita dei miei genitori, il modo in cui sono stati uccisi. Mi sono comportata per certi versi come uno che ha visto e che tace, e per questo ho provato anche un senso di colpa».

La svolta è stata nel 2006, quando i resti del DC9 sono stati in qualche modo rimessi insieme e portati a Bologna. Elisabetta andò all’inaugurazione del museo con i familiari. «Quello che ho visto quel giorno mi ha riportato indietro di ventisei anni. Quando ho visto l’aereo, è come se avessi risentito la telefonata della zia. Per la prima volta ho pianto. Un suo collega, con il tatto che avete a volte voi giornalisti, mi si è avvicinato e mi ha chiesto: signora, ci dica che cosa prova in questo momento».

Dopo quel giorno, la sofferenza è esplosa. Elisabetta ha cominciato a non dormire più, il «dolore dentro» era diventato devastante. «Ho cominciato a scrivere - spiega - per vomitarlo fuori». Le chiedo come abbia fatto, prima, a riuscire a controllarsi. «Dicevo: è successo e basta, bisogna andare avanti. Lei ha letto ciò che ho passato quella notte. Io ho dovuto prendere una posizione, farmi carico di mia sorella, abbracciarla: non potevo piangere. Ogni tanto mi chiudevo in bagno per stare da sola. Ricordo che un giorno, non so bene se fosse il 29 o il 30 luglio, guardai fuori dalla finestra del bagno. Era una giornata di sole meravigliosa. Io adoro il sole, ma in quel momento lo odiai. Avrei voluto che tutto fosse stato buio. Invece vedevo la gente che camminava, che andava a fare la spesa. Per gli altri il mondo andava avanti come prima: forse è stato anche lì, in quel momento, che ho pensato che non dovevo fermarmi».

Ma la vita non è stata più la stessa. «Ustica ha condizionato tutta la mia vita, anche se ho cercato a lungo di rimuoverla. Sa che cosa mi ha fatto più male? È che Ustica ha due aspetti. Uno è quello di cui si è parlato tanto: le indagini, i depistaggi, le bugie, i processi. Ma l’altro aspetto, di cui non si parla mai, siamo noi. Tutte le persone morte su quell’aereo non avevano solo un nome e un cognome: avevano anche tanti familiari. Noi siamo invisibili ma esistiamo: per trent’anni siamo stati torturati ogni giorno della nostra vita. Sono trent’anni che speriamo, illudendoci, di sapere chi è stato e perché. Cerchiamo la verità, null’altro. Per questo non siamo ancora riusciti a elaborare il lutto».

Le chiedo se si siano sentiti soli. «Sì. Fin dal primo momento. Nessuno ci ha mai telefonato per dirci: l’aereo è caduto, e su quell’aereo c’erano i vostri genitori. Eravamo noi, quella notte e la mattina dopo, a telefonare a Bologna, a Roma, a Palermo: le linee erano sempre staccate. Nessuno ci ha neanche mai detto: venite a identificare i corpi. Ci sono andati i miei fratelli, a Palermo, informati dalla televisione. Sono passati i mesi e gli anni: nessuno ci ha ancora mai chiamati. Ci siamo dovuti costituire in associazione, noi familiari delle vittime, per prendere parte ai processi».

Continua: «Non ha idea di quale fatica io provi anche adesso nel parlare con lei. Detesto apparire, mostrare agli altri quello che ho dentro. Ma veda, su quell’aereo c’erano 81 persone fra cui mio padre e mia madre, e potrebbe esserci stato chiunque di noi. Credo che sia interesse di tutti gli italiani sapere la verità. Credo che sia interesse di tutti battersi affinché una cosa così non possa accadere mai più». Le chiedo se è stata mai felice, in questi trent’anni: «La felicità è mia figlia Giulia, che oggi ha 25 anni. Quando l’abbraccio, io sono felice. Ma ho sempre paura che le possa succedere qualcosa: noi siamo tutti la conseguenza del nostro passato, e Ustica ha condizionato non solo la nostra vita, ma anche quella dei nostri figli».

C’è un vecchio filmino in Super 8 che Giuseppe Lachina aveva girato poco prima di quel 27 giugno 1980. È un altro viaggio da Bologna a Palermo. L’aereo è lo stesso. Si vede la torre di controllo, la moglie Giulia che sale la scaletta, si gira e saluta. È una domanda da povero ingenuo, ma la faccio lo stesso: signora Elisabetta, sono in tanti a sapere la verità, possibile che nessuno abbia una crisi di coscienza, un rimorso? Possibile che nessuno possa decidere di parlare per placare la vostra sete di verità? «Mi sono chiesta tante volte che cosa avrei fatto io nei loro panni, e non so se avrei avuto il coraggio di parlare, forse avrei avuto paura per la mia vita e per quella dei miei figli». È umano. Ma è umana anche la speranza che qualcuno possa vivere una notte da Innominato.

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